Il 21 settembre è stata la Giornata Mondiale dell’Alzheimer, una malattia neurodegenerativa a decorso cronico e progressivo, causa più comune di demenza nella popolazione anziana dei Paesi sviluppati. Ad oggi si stima ne siano colpiti circa il 20% degli ultra-85enni e circa il 5% della popolazione al di sopra dei 65 anni. Sono però riconosciuti diversi casi precoci, in cui la malattia è insorta prima dei 50 anni.
I sintomi possono variare in base agli individui ma rientrano tutti nello spettro di una graduale perdita di funzioni cognitive, ad esempio:
- Progressiva perdita di memoria, il sintomo più noto
- Difficoltà nel linguaggio
- Difficoltà nell’esecuzione di normali attività quotidiane
- Perdita di autonomia
- Disorientamento spaziale e temporale
Il progressivo inasprimento dei sintomi può accompagnarsi ad alterazioni della personalità anche sostanziali nel malato.
Una malattia di difficile comprensione
Per decenni, gli sforzi nella ricerca sull’Alzheimer sono stati mirati a comprendere i meccanismi sottostanti alla malattia.
Una delle scoperte più rilevanti è stata la correlazione tra genetica e Alzheimer. Nel 1984, la scoperta dell’apolipoproteina Ɛ come fattore di rischio genetico ha portato a una comprensione più approfondita dell’ereditarietà della malattia. Si è scoperto che gli individui con una alterazione del gene APOEƐ4 sono a maggior rischio di sviluppare l’Alzheimer. Questa scoperta ha aperto nuove vie per la ricerca, compreso lo studio delle varianti genetiche associate alla malattia.
L’attuale teoria predominante sulle origini dell’Alzheimer si concentra sul coinvolgimento di due proteine cruciali: la beta-amiloide e la tau. La beta-amiloide assume diverse conformazioni molecolari, aggregandosi tra i neuroni. Questa proteina30 ha origine dalla frammentazione di una proteina più ampia chiamata proteina precursore dell’amiloide (APP). Una specifica forma di beta-amiloide, nota come beta-amiloide 42, è particolarmente nociva.
Nei cervelli delle persone affette da Alzheimer, si verificano accumuli anomali di questa proteina (presente in quantità minori anche nei cervelli sani), formando aggregati noti come placche. Queste placche si accumulano tra i neuroni, compromettendo la funzione cellulare e contribuendo al deterioramento cognitivo associato alla malattia.
Passi avanti notevoli che oggi ci permettono di avere un quadro più chiaro sulla malattia e il suo decorso ma che ancora non sono sufficienti per arrivare ad una cura.
Attuali e future terapie per l’Alzheimer
Oggi le terapie per l’Alzheimer sono principalmente mirate a gestire i sintomi e a rallentare la progressione della malattia. Per alcuni pazienti, ad uno stadio lieve o moderato, esistono farmaci in grado di aiutare a limitare l’aggravarsi dei sintomi per alcuni mesi. Questi principi attivi funzionano come inibitori dell’acetilcolinesterasi, un enzima che distrugge l’acetilcolina, il neurotrasmettitore carente nel cervello dei malati di Alzheimer.
L’aspetto più affascinante della ricerca sull’Alzheimer è però rappresentato dai nuovi orizzonti che si stanno aprendo con le terapie biologiche in fase di sviluppo. Alcuni ricercatori stanno esplorando l’uso di anticorpi monoclonali per rimuovere gli accumuli di beta-amiloide nel cervello, considerati una delle principali cause dell’Alzheimer. Questi trattamenti stanno mostrando promettenti risultati nelle prime fasi degli studi clinici.
Un altro campo in crescita riguarda le terapie geniche. Gli scienziati stanno cercando di sviluppare terapie che possano correggere o mitigare le mutazioni genetiche che predispongono all’Alzheimer. Questo approccio potrebbe rappresentare una svolta fondamentale nella prevenzione della malattia.
Parallelamente, la ricerca sta esplorando approcci non farmacologici. La stimolazione cerebrale profonda, ad esempio, è stata testata per migliorare la memoria e la funzione cognitiva in alcuni pazienti. Anche l’integrazione delle tecnologie digitali sta rivoluzionando la diagnosi e il monitoraggio dell’Alzheimer: applicazioni e dispositivi basati sull’intelligenza artificiale possono analizzare i modelli comportamentali dei pazienti per rilevare precocemente i cambiamenti cognitivi. In questo campo le nuove scoperte sono in costante aumento, diventando di fatto uno degli approcci più promettenti per la lotta all’Alzheimer.
Le malattie neurodegenerativi rimangono una delle grandi sfide aperte della medicina ma il progresso della ricerca e il lavoro di brillanti menti in tutto il mondo ci fanno sperare in un futuro in cui questi disturbi diventino completamente curabili.